Nel piccolo Molise la rappresentazione plastica della strana dicotomia del mondo olivicolo d’oggi che si dibatte alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi. Scegliere la strada della valorizzazione di tipicità o territorio? Oppure buttarsi sulla competitività?

Capita spesso di occuparci di olivicoltura e olio nel corso dell’anno, direttamente, con eventi divulgativi o di formazione, ma anche come semplice spettatore interessato. Dopo la batosta di due anni fa, causata dal dittero più odiato d’Italia – purtroppo ripresentatosi come una peste – siamo ancora qui a fare i conti con i soliti problemi. L’hobbista da una parte, che anche quest’anno vedrà le sue olive marcire, il consumatore alla disperata ricerca di olio dello scorso anno e gli olivicoltori e/o produttori di extravergine vero, tra ovideposizioni, trattamenti e modifiche normative sulle etichette – che continuano a non raccontare nulla – soverchiati da un sistema, modellato sempre più a misura dei grandi.

Insomma, materiale per dibattere e comunicare non ne manca, occasione che non si sono lasciati sfuggire a Larino, centro del basso Molise, inserendo nella 274a edizione della “Fiera d’Ottobre”, manifestazione tra le più antiche del centro sud-Italia (istituita con Regio Decreto il 13 settembre del 1742 da Carlo III, Re del Regno delle Due Sicilie, le sue origini sembrano risalire addirittura al XV secolo), due eventi che hanno cercato, in maniera diversa, di porre l’attenzione su alcune criticità del settore. Da una parte si è focalizzata l’attenzione sulla qualità dell’extravergine, come leva di competitività, di benessere e solidarietà del tessuto sociale, proposta offerta dall’Associazione Nazionale delle Città dell’Olio, che nacque proprio a Larino, nel 1994. L’associazione provinciale di produttori A.Pro.Pr.Ol., invece, ha messo sul piatto il tema superintensivo riferito alle cultivar locali, il sistema di allevamento che risolverà tutti i problemi (“non abbiate paura dell’innovazione”), a detta degli organizzatori. Insomma, da una parte si è parlato di qualità, di tutela del paesaggio e di cultivar autoctone (il piccolo Molise ne vanta ben 18), come leve di marketing, nell’altra sempre di qualità, di tutela del paesaggio e di cultivar autoctone (proprio così). Risultato? Il primo appuntamento, togliendo una folta rappresentanza di studenti dell’Istituto Tecnico Agrario di Larino, aveva una sparuta platea; nel secondo, invece, si faceva fatica anche a respirare all’interno della grande tensostruttura (la stessa).

Cos’è che non ha funzionato? La comunicazione? Probabilmente no, ma quella illusione – perché al momento tale è – di un impiego di cultivar locali (sarà stato per caso un pretesto?), ha stuzzicato l’interesse di tanti olivicoltori (tanti anche gli agronomi presenti, sarà stato un caso?) che vedono in questo sistema di allevamento la loro via d’uscita. Non viviamo di preconcetti, anzi, ragionato e cucito addosso ad una realtà olivicola e alle sue varietà, può essere anche un’opportunità su cui riflettere e studiare. Ma non si può sedurre una folta platea con dei risultati preliminari (dati concreti su cui discutere si possono avere dopo almeno dieci anni di sperimentazioni solide e pubblicate), per di più sponsorizzati da un vivaista (“sono un fermo sostenitore della tutela del territorio”, lui!), e da un consulente di una grossa multinazionale, giusto per citarne qualcuno. Il rischio di una deriva che si sta allargando a macchia d’olio e che vorrebbe colonizzare anche il piccolo fazzoletto di terra del basso Molise, dalla Puglia, che si presta a questo tipo di coltivazione, è reale.

Cosa rispondere agli olivicoltori che devono avere un reddito (come dargli torto!) e che volentieri getterebbero alle ortiche un patrimonio olivicolo, storico e culturale, oltre che paesaggistico, invidiabile? Utilizzando le stesse armi del vino, per esempio, dove i concetti succitati sono stati i veri punti di forza del rilancio dell’Italia nel mondo, puntando sulla qualità, sulla biodiversità e non sull’omologazione, dove la comunicazione diventa determinante, magari con forme di aggregazione per chi non ha la forza o le capacità di camminare con le proprie gambe. È un processo lungo che richiede pazienza, sforzi e soprattutto competenza, ma di sicuro non bisogna cadere alle lusinghe di sistema di appiattimento che ci vedrebbe comunque perdenti, rispetto ai nuovi e agguerriti competitor internazionali. Intanto per noi basta e avanza una folta e attenta platea di studenti dell’Istituto Agrario, perché tra qualche anno saranno loro protagonisti sul campo.

Sebastiano Di Maria

Articolo pubblicato su Teatro Naturale