Oggi voglio trattare un argomento un po’ ostico, forse troppo tecnicistico, è vero, ma credo voglia rappresentare o riassumere, almeno nelle intenzioni, quello che è il massimo della ricerca nel settore enologico, in questo momento, nel nostro paese, che chi scrive ha avuto modo di toccare con mano, con gli stessi relatori, nel master sul vino frequentato presso la Fondazione Edmund Mach e Istituto Agrario di San Michele all’Adige. E’ andato in scena, nei giorni scorsi, in quel di Montalcino, infatti, un convegno scientifico sulla tracciabilità del Sangiovese nelle bottiglie di Brunello, promosso dal Consorzio di tutela di una delle denominazioni italiane più conosciute al mondo. Si sono alternati, come relatori, i massimi esponenti scientifici in materia che, dopo lo scandalo “brunellopoli” di qualche anno fa, che ha destato molto scalpore e creato un vero e proprio terremoto all’interno della prestigiosa denominazione, hanno cercato di illustrare quali sono le metodiche che più si prestano a identificare l’origine del prodotto, ossia, se nella bottiglia di Brunello ci sia Sangiovese al 100%. Chi ha avuto modo di seguire la querelle sa che, in realtà, non si è trattato di una vera e propria sofisticazione ma, bensì, di un’aggiunta di uve di altra varietà e proveniente da altre regioni – il disciplinare prevede Sangiovese al 100% – con l’intento, presumibilmente, di gonfiare le produzioni e aumentare il profitto, oltre che conferire al prodotto peculiarità specifiche di altri vitigni.

 

 
Il convegno è servito a illustrare, dopo anni di ricerche, qual è la metodica più efficace nel tracciare l’origine del vino.Tre sono state le metodiche approfondite, dal profilo antocianico, passando per l’analisi del DNA e finendo con il metodo degli isotopi stabili. Andiamo per gradi e cerchiamo di capire, a grandi linee, quali sono le prerogative delle diverse metodiche. Innanzitutto, quello che è emerso, come si legge dagli articoli della stampa di settore, è che la metodica sullo studio del profilo antocianidinico del vino, ossia della frazione colorante, sia quello che meglio si presta, in particolar modo per vini sottoposti a un lungo periodo d’invecchiamento, a tracciare, attraverso la formazione di pigmenti dipendenti dalla varietà, l’effettiva presenza di una varietà di uva nella bottiglia, Sangiovese nella fattispecie. I risultati ottenuti sono stati illustrati da Fulvio Mattivi, coordinatore del Dipartimento Qualità Alimentare e Nutrizione presso il Centro Ricerca e Innovazione della Fondazione Edmund Mach Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Secondo Mattivi, l’utilizzo dell’innovativo metodo UHPLC-MS/MS (Ultra performance liquid chromatography), che rappresenta un miglioramento della metodica della cromatografia liquida, metodo validato dall’OIV e utilizzato per i vini giovani, consente di ottenere correlazioni statistiche significative tra pigmenti dell’uva di partenza e quelli del vino invecchiato dimostrando, di fatto, che il pattern antocianico della varietà Sangiovese, determinato geneticamente, viene “ereditato” dai pigmenti che si formano durante l’invecchiamento del vino. Ricordiamo che il Brunello di Montalcino va in commercio, come da disciplinare della DOCG, dopo cinque anni dalla raccolta e dopo almeno due anni di affinamento in botti di rovere. Quì trovate l’intervista a Fulvio Mattivi.
 
Evoluzione di alcuni pigmenti durante l’invecchiamento
Fonte: “Study of Sangiovese Wines Pigment Profile by UHPLC-MS/MS: J. Agric. Food Chem., 2012, 60 (42), pp 10461–10471″
Altro filone di ricerca è stato quello dell’analisi del DNA, questa volta attraverso il confronto di due gruppi ricerca, uno diretto da Rita Vignani, coordinatrice scientifica dell’area agronomica di Serge-genomics dell’Università di Siena, l’altro da Stella Grando, referente per la genetica della Fondazione Edmund Mach Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Per la ricercatrice dell’ateneo senese, il wine fingerprinting, ossia l’analisi del DNA residuo del vino attraverso un’impronta che consenta di stabilire statisticamente il vitigno d’origine, è una buona metodica di ricostruzione grazie all’amplificazione di frammenti di codice genetico mediante marcatori molecolari. Secondo Stella Grando, invece, costatato che nei vini la quantità del DNA proveniente dall’uva diminuisce notevolmente nel corso della fermentazione e la sua qualità non è sufficiente a stabilire la purezza di un vino (se è cioè monovitigno nel caso del Brunello), ma solo se quel tipo di varietà (in questo caso Sangiovese) è presente nel vino senza escludere quella di altri, non risponde, quindi, agli obiettivi della ricerca stessa, che era appunto se sia possibile attraverso DNA stabilire la purezza del Brunello. L’estrazione del DNA e l’amplificazione mediante marcatori molecolari, sono stati applicati con successo su mosti d’uva e in fermentazione, viceversa, lo stesso procedimento è difficile su campioni di vino, se non con l’individuazione di sonde molecolari che possano individuare le singole cultivar ed eventualmente quantificarne le diverse frazioni. Per saperne qualcosa in più, potete legge questo post. L’intervista a Stella Grando potete vederla quì.

Semplificazione del procedimento di amplificazione di microsatelliti e relativa separazione elettroforetica dei frammenti

 

La parte del lavoro sugli isotopi stabili è stata seguita da Federica Camin, anch’essa afferente alla Fondazione E. Mach, la quale ha potuto rilevare che è possibile individuare l’origine anche in zone molto piccole come il territorio di Montalcino. L’utilizzo degli isotopi stabili, per individuare la zona di origine, è nota da molti anni e ci sono banche dati ventennali, che consentono di individuare l’origine nell’ambito di macroaree quali regioni o gruppi di regioni. I dati rilevati sul territorio di Montalcino hanno infatti uno scarto molto più contenuto e pertanto, anche attraverso un monitoraggio costante anno dopo anno nel territorio, sarebbe possibile costituire una banca dati che permetterebbe di avere dati specifici per il territorio di Montalcino. Quì trovate l’intervista.

Esempio di tracciabilità, tramite isotopo dell’acqua, di vini sudamericani (Argentina, Brasile, Cile, Uruguay) e Sud-Africa
Fonte: Enoforum 2011, Arezzo (G. Nicolini et al.: Commemorazione Versini)

I risultati delle ricerche dimostrano che, allo stato dell’arte, il metodo del profilo antocianico è quello che da maggiori garanzie nella tutela delle denominazioni, sia per i produttori ma soprattutto per il consumatore, indicando la presenza del vitigno in purezza. A questo metodo, poi, può essere affiancato quello degli isotopi stabili, che consente un’ulteriore definizione territoriale. L’analisi del DNA, viceversa, non consente di ottenere risultati scientificamente riproducibili su tutta la produzione e, soprattutto, non è sufficiente a stabilire la purezza di un vino, ma solo se quel tipo di varietà – Sangiovese nella fattispecie – è presente, senza poter escludere quella di altri.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com