Nell’edizione pomeridiana del TG3
regionale del giorno 6 settembre, in pieno clima vendemmiale, è andato in onda un servizio sul futuro
della vitivinicoltura molisana e in particolare sulle sorti della Tintilia,
l’autoctono simbolo dell’enologia regionale. Non conoscendone il contenuto,
sono andato alla ricerca del video che mette a nudo, dopo aver tessuto lodi e incensato
il vitigno e il relativo vino da più parti in questi ultimi anni, non senza
stupore, un vero e proprio malcontento in diversi produttori che, per chi vive quotidianamente
questa realtà come il sottoscritto, sono più di un semplice campanello di
allarme. In un periodo di crisi e di contrazione del mercato, che in generale
non ha intaccato il sistema vitivinicolo nazionale, si osserva, di contro,
un’inversione di tendenza per le cantine private della regione che si sono approvvigionate
negli anni delle uve prodotte da terzi, in particolare di Tintilia, per far
fronte all’aumento della domanda. Le difficoltà oggettive di vendita del vino
Tintilia in questo periodo, come affermato dai viticoltori intervistati, fa vacillare,
di fatto, questo mercato trasversale che teneva in vita parte della
vitivinicoltura regionale, o di quello che resta dopo la mattanza
dell’estirpazione massiccia che ha portato la superficie dai 9.236 Ha del 1982
ai 4.173 Ha del 2010 (dati del censimento agricoltura ISTAT 2010).
 
 
Partiamo da
lontano e cerchiamo di capire quali sono i fattori che hanno determinato questo
saldo negativo del 29%, solo nel decennio 2000/2010, sulla superficie viticola
e sullo sviluppo del mercato enologico regionale, in particolar modo per la
Tintilia. Come già ho avuto modo di parlarne
in altri articoli, la Tintilia ha rappresentato il vero punto di svolta del
comparto vitivinicolo regionale, non tanto per il recupero del materiale
genetico o delle aree interne e marginali, di cui era padrona indiscussa fino
agli anni ’50 tanto che l’attuale territorio della regione Molise era il più
vitato del centro-sud con oltre 22.000 Ha, ma soprattutto come simbolo di
un’unità enologica territoriale ben determinata, un grimaldello che potesse
aprire nuovi scenari di mercato e fare uscire un’identità territoriale
pressoché sconosciuta. Il primo errore fu commesso, dopo la riforma fondiaria,
con la conversione delle aree marginali interne a cerealicoltura e lo sviluppo
di una viticoltura estensiva nel basso Molise, votata alla quantità più che
alla qualità, per scelte politico-produttive, come dimostra l’utilizzo del
sistema d’impianto a tendone, che decretano la nascita di grandi cantine
cooperative. Purtroppo questa scelta si è dimostrata fallimentare, non tanto
per la qualità delle produzioni o della laboriosità dei viticoltori, mai in
discussione, ma quanto per scelte politiche ed economico-organizzative che
hanno trasformato delle solide realtà cooperativistiche, o presunte tali, in
veri e propri bacini di voti e in un coacervo d’interessi personali e di
sperpero di denaro pubblico. Questa miopia ha portato, di contro, ed eccoci
arrivati ai giorni nostri, a una crescita forte di cantine private che, grazie a
una territorialità inespressa e a un vitigno a essa intimamente legato, hanno
dato nuova linfa a un settore ormai in decadenza. Ed ecco i primi
riconoscimenti per diversi vini, tra cui la Tintilia, e per diverse cantine
della regione, fino a qualche decennio fa ad appannaggio di una sola realtà
territoriale. Bisognava cavalcare l’onda ed ecco, quindi, nuovi impianti di
vigneti e riconversioni varietali con il vitigno Tintilia a farla da padrone,
anche grazie all’aiuto comunitario contenuto nella relativa OCM e sotto
l’azione della politica agricola regionale. Tutti, a diverso titolo, addetti e
non, hanno “cavalcato” l’onda emotiva distogliendo lo sguardo, probabilmente decisivo,
di una corretta opera promozionale e di marketing che non tenesse conto dei
diversi campanili, che purtroppo esistono. E non bastano dichiarazioni di
comunità d’intenti sulla necessità di una strategica opera di marketing, come
si evince dalle interviste che i singoli produttori rilasciano. A titolo
esemplificativo, per esempio, c’è chi ha deciso di affidarsi a firme
dell’enologia internazionale come chiave del successo e chi, invece, si trova a
lottare quotidianamente, spesso in prima persona, per cercare di mantenere o di
non perdere quote di mercato. Qual è la promozione strategica regionale? Qual è
il ruolo e quali sono le attività svolte dal Consorzio di tutela dei vini della
regione Molise? Cosa sono le strade del vino, e mi sono stancato di dirlo, se
non delle fredde tabelle, peraltro di difficile interpretazione, poste ai bordi
delle strade della regione?
 
Fonte: I numeri del vino
 
Certo, ci sono diverse persone che cercano di
mettersi a servizio delle aziende e del territorio spendendo la propria
professionalità e il proprio bagaglio personale, come l’amico Pasquale Di Lena,
già segretario generale dell’enoteca italiana di Siena, che tanto sta dando in
termini di visibilità all’intero territorio regionale e alle sue ricchezze storico-culturali
ed enogastronomiche. Dai produttori intervistati, quindi,
è lampante un sentimento di scoramento e d’impotenza di fronte all’evolversi
del mercato: essere costretti a estirpare un vitigno di cui si sono visti
incentivare la riconversione o il nuovo impianto. Purtroppo qualcosa
scricchiola e non è solo da imputare all’agonia delle realtà cooperativistiche
regionali, costrette ad accontentarsi di mercati marginali o di medio-basso
profilo, peraltro avvalorato dal fuggi-fuggi verso realtà del vicino Abruzzo (ma
qualche produttore non parlava di un rischio concreto di scippo della IGP Osco
o Terre degli Osci?) o dalla svendita sul mercato delle proprie uve per realtà
produttive ben lontane dalla nostra, soprattutto per il Trebbiano, ma in parte anche
per il Montepulciano.  Da cosa dipende
tutto ciò? La mia piccola esperienza, al di
fuori dei confini regionali, ha messo a nudo una realtà che ai miei occhi poteva
sembrare diversa. Non mi riferisco assolutamente alla qualità e alla bontà
delle nostre produzioni di qualità, mai messa in discussione, ma quanto ad una
visibilità pressoché nulla. Il punto che forse si è trascurato maggiormente, e
che non mi stancherò mai di ripetere, è rappresentato dai volumi di prodotto da
immettere sul mercato, troppo piccoli perché possano diffondere capillarmente già
nel solo territorio nazionale. Basti pensare che la DOC Montepulciano
d’Abruzzo, per fare un esempio a noi vicino, diffusa e conosciuta in campo
internazionale, nel 2010 ha denunciato oltre 10.000 Ha d’impianti e circa
900.000 ettolitri di vino. Ed è solo una delle denominazioni, anche se tra le
più grandi d’Italia, e il confronto dei numeri è impietoso. Da dove partire
allora? Intanto radicando il consumo del vino e della Tintilia già in ambito
regionale attraverso una comunione d’intenti, su cui c’è ancora molta
diffidenza e scarso appeal ad appannaggio del Montepulciano come vitigno, più
diffuso e di qualità indiscussa.


 

Naturalmente mi riferisco al “consumatore
quotidiano”, alle nuove generazioni, e non ai soloni della degustazione o
presunti tali, di cui pullula la medio – alta borghesia enofila, educarli a un
consumo consapevole, alla riscoperta del territorio, sdoganando il concetto di
vino come bene di lusso, cosa che molte aziende stanno facendo anche come
tendenza del mercato ma che non rispecchia la realtà. Solo con una
consapevolezza maggiore delle proprie potenzialità a 360°, coinvolgendo anche
altre produzioni di qualità indiscussa, come olio extravergine e tartufo, solo
per citarne alcuni, in un contesto di ruralità senza eguali in termini
percentuali nel nostro paese, si può immaginare di uscire da un sostanziale stato
di anonimità che, aimè, tranne qualche distinguo più frutto di opera
individuale, è tangibile al di fuori dei confini regionali.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com