Uno degli argomenti più dibattuti quando si parla di vino, tanto da creare due veri e propri fronti, favorevoli e contrari, è l’aggiunta in vinificazione dell’SO2 o anidride solforosa. L’uso dello zolfo come antisettico, sia in fase di fermentazione sia per la conservazione del vino, è una pratica molto antica. E’ superfluo ricordare che l’aggiunta della stessa porta indubbi vantaggi. Grazie alla sua attività antimicrobica e antiossidante, nel processo di vinificazione, toglie l’enologo da pericolosi imbarazzi: azione selettiva svolta nei confronti dei lieviti, inibendo gli apiculati, poco resistenti alla stessa e poco graditi, in favore degli ellittici contenuti nei normali starter o come nel regolare una fermentazione spontanea (lieviti autoctoni), estrazione di sostanze coloranti, illimpidimento dei mosti e attività antiossidante, sono solo alcune delle sue prerogative.
Anche in vitivinicultura biologica l’uso dei solfiti è consentito, anche se con limitazioni. Di fronte a questa validità d’impiego, pur riconoscendo la tossicità di questi composti sul consumatore, la normativa vigente ne fissa i limiti  e obbliga la dicitura in etichetta “contiene solfiti”. Oltre a mettere in guardia il consumatore sensibile al composto, ne indica anche gli effetti di tossicità cronica  in seguito ad assunzioni minime giornaliere.
I limiti di legge sono 160 mg/l per i vini rossi, 210 mg/l per i vini bianchi e rosati, purchè il residuo zuccherino non superi i 5 g/l, altrimenti i limiti salgono. In generale, il contenuto si solforosa è più alto nei vini bianchi e in particolar modo nei passiti, per evitare rifermentazioni visto l’elevato residuo zuccherino.
La tendenza attuale è quella di contenerne l’utilizzo, partendo da uve sane e limitandosi ad aggiunte solo in fase di svinatura e/o imbottigliamento in modo da diminuire quella combinata nel vino favorendo la forma libera.
Per inciso, non avremo mai un vino esente da solfiti, in quanto i lieviti ne producono naturalmente delle piccole quantità.
Ci sono anche produttori, come quelli che aderiscono al progetto Freewine, il cui obiettivo è zero solfiti aggiunti nel vino. Questa strategia si fonda su due principi: l’uso di tecnologie specifiche e utilizzo di protocolli di vinificazione innovativi, attraverso una buona serie di pratiche enologiche che consentano di controllare, in particolar modo, l’ossigeno in tutte le fasi della lavorazione, croce e delizia dei processi di vinificazione. Molte tecnologie sono già note, come abbondante uso di gas inerti, cura massima dell’igiene, lieviti e batteri selezionati, nutrizione degli stessi ottimizzata, grande attenzione al contatto indesiderato con l’ossigeno, chiusure appositamente studiate.
Un ulteriore passo in avanti nella produzione di vino senza uso di solfiti è stata la sperimentazione condotta dall’Università della Tuscia, in sinergia con la società Pc Engineering e la californiana Purefresh Inc. La chiave sta nell’uso dell’ozono (O3) per il trattamento delle uve: nasce così Purovino. In realtà si tratta di un protocollo di trattamento, già sviluppato alcuni anni fa e da impiegare sull’uva da tavola, con un duplice effetto: forte attività antisettica (forte ossidante) e aumento dei composti polifenolici come stilbeni (trans-resveratrolo) utili per salute umana, oltre a flavanoli ed acidi idrossicinnamici, particolarmente importanti da un punto di vista enologico. Se poi l’ozono, trasformandosi rapidamente in ossigeno, non lascia nessun residuo, ecco che l’applicazione in campo enologico ha un motivo più che valido.
La sperimentazione è stata eseguita in sette cantine dislocate tra Umbria e Toscana su uve Cabernet Sauvignon e Montepulciano. L’uva raccolta a mano e posta in cassetta, dopo refrigerazione, è sottoposta ad un atmosfera satura di ozono mediante un generatore, il cui costo è di circa 30.000 € e con un consumo di 0,6 kW ora alla massima potenza, quindi come un normale elettrodomestico. Tutti gli impianti di vinificazione sono lavati con acqua ozonata che, dopo l’utilizzo, viene filtrata e reimpiegata con un notevole risparmio idrico (30%) e, di conseguenza, l’inutilizzo di sostanze chimiche per la sanificazione. La restante parte del processo di vinificazione avviene secondo i canoni standard, senza l’aggiunta di solfiti, naturalmente.
I risultati ottenuti hanno mostrato che c’è stato un aumento della concentrazione di alcune frazioni fenoliche, in particolar modo di acido gallico, catechina ed epicatechina ed una significativa diminuzione di lieviti, batteri acetici e funghi presenti sulla superficie degli acini, oltre ad eliminare i residui di sostanze chimiche persistenti (fitofarmaci), generalmente impiegate sulle uve nei trattamenti in campo. Anche l’analisi del vino ha fornito dati interessanti, in primis una bassa concentrazione di solfiti rispetto alla vinificazione tradizionale, come era lecito attendersi, frutto della sola attività dei lieviti, oltre che un inatteso aumento di polifenoli e antociani. Probabilmente l’attività dell’ozono ha portatato anche ad una maggiore estraibilità di questi composti mediante la sua azione sull’uva.
Il procollo Purovino può essere considerato, quindi, a tutti gli effetti, alternativo per la produzioni di vini privi di solfiti aggiunti oltre che di ausilio alla sostenibilità di cantina, intesa come risparmio idrico e assenza di residui chimici.
Sebastiano Di Maria
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